LE DIFFERENZE FRA AFFITTO D’AZIENDA E LOCAZIONE COMMERCIALE – QUANDO RICONDURRE IL CONTRATTO A LOCAZIONE?

La qualificazione giuridica di un contratto come “affitto d’azienda” piuttosto che come “locazione di immobile a uso commerciale” è una questione di primaria importanza nel diritto civile e commerciale italiano. Sebbene le parti possano attribuire al contratto un determinato “nomen iuris”, la giurisprudenza è costante nell’affermare che la natura del rapporto non dipende dalla denominazione formale utilizzata, ma dalla sua sostanza e dall’effettiva volontà delle parti, desumibile dall’oggetto del contratto e dal complesso delle pattuizioni.

La corretta qualificazione è dirimente, poiché determina l’applicazione di regimi normativi profondamente diversi, in particolare per quanto riguarda la durata minima del rapporto e il diritto del conduttore/affittuario a percepire l’indennità per la perdita dell’avviamento commerciale alla cessazione del contratto. La Legge n. 392 del 1978 (c.d. Legge sull’Equo Canone) prevede tutele specifiche per il conduttore di immobili commerciali, tra cui una durata minima legale e l’indennità di avviamento, che non si applicano, invece, al contratto di affitto d’azienda, disciplinato primariamente dagli articoli 2555 e seguenti del Codice Civile.

Il Criterio Distintivo Fondamentale è la preesistenza di un Complesso di Beni Organizzato

Il fulcro della distinzione risiede nella natura dell’oggetto del contratto. La giurisprudenza, in modo consolidato, ha stabilito che si ha locazione di immobile a uso commerciale, quando l’oggetto principale e prevalente del contratto è un bene immobile, considerato nella sua individualità giuridica, concesso in godimento affinché il conduttore vi possa esercitare la propria attività imprenditoriale, organizzando ex novo i beni e i servizi necessari [Cass. Civ., Sez. 5, N. 6067 del 24-02-2022]. 

In questo scenario, eventuali altri beni (come le pertinenze) hanno un carattere meramente accessorio e funzionale al godimento dell’immobile stesso.

Si configura, invece, un contratto di affitto d’azienda, quando l’oggetto del godimento non è il singolo immobile, ma un “complesso di beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa” (art. 2555 c.c.). In tale fattispecie, l’immobile è solo uno degli elementi che, insieme a mobili, attrezzature, licenze, know-how e avviamento, costituisce un’entità unitaria e funzionale, già dotata, almeno potenzialmente, di capacità produttiva [Cass. Civ., Sez. 5, N. 6067 del 24-02-2022].

La Corte di Cassazione ha chiarito questo punto in modo inequivocabile:

“la differenza essenziale tra locazione e affitto di azienda (o di ramo di essa) è in primo luogo nella preesistenza di una organizzazione in forma di azienda dei beni oggetto di contratto, mancando la quale non si può dire che sia stato ceduto il godimento di un’azienda o di un suo ramo” [Cass. Civ., Sez. 3, N. 3888 del 17-02-2020].

L’indagine del Giudice deve quindi accertare se, al momento della stipula, esistesse già un complesso di beni funzionalmente organizzato per l’esercizio di un’attività d’impresa. La semplice presenza di alcuni beni mobili all’interno dell’immobile non è di per sé sufficiente a qualificare il contratto come affitto d’azienda. Un esempio pratico fornito dalla giurisprudenza riguarda la cessione di un locale con “un massetto, un registratore ed un gabinetto”, elementi ritenuti insufficienti a costituire un’azienda, in quanto non integrano un complesso organizzato dotato di autonoma capacità produttiva.

Per dirimere la questione, il giudice di merito è tenuto a svolgere una duplice indagine:

– Verifica oggettiva: Accertare se i beni oggetto del contratto fossero già organizzati in forma di azienda dal concedente al momento della stipula [Cass. Civ., Sez. 5, N. 6067 del 24-02-2022].

– Verifica soggettiva: Indagare la comune intenzione delle parti, al di là del senso letterale delle parole, per stabilire se abbiano voluto trasferire il godimento del complesso organizzato nel suo insieme oppure semplicemente quello di un immobile, rispetto al quale gli altri beni e servizi risultano meramente strumentali.

È importante sottolineare che l’azienda non deve essere necessariamente in piena attività al momento della conclusione del contratto. È sufficiente che il complesso dei beni possieda una potenzialità produttiva, anche se momentaneamente inutilizzato o se necessita di interventi di riorganizzazione o integrazione da parte dell’affittuario [Tribunale Ordinario Velletri, sez. 2, sentenza n. 1291/2020].

La figura dell’affitto d’azienda ricorre anche quando il complesso organizzato dei beni sia stato dedotto nel contratto nella sua fase statica, ovvero al momento della conclusione dello stesso non fosse in grado di funzionare per la necessità di una diversa e più efficiente organizzazione o dell’apporto di altri beni.

Questo principio impedisce che la disciplina protettiva della locazione commerciale venga elusa attraverso la stipula di contratti formalmente qualificati come affitto d’azienda, ma aventi ad oggetto, in realtà, un immobile “spoglio” o privo di una reale organizzazione preesistente.

Qualora il giudice accerti che, nonostante il nomen iuris di “affitto d’azienda”, il contratto abbia in realtà ad oggetto la concessione in godimento di un immobile per l’esercizio di un’attività commerciale, esso viene ricondotto d’ufficio alla disciplina della locazione commerciale (L. 392/1978). Le conseguenze sono immediate e significative.

Il contratto viene assoggettato alla durata minima imperativa prevista dall’art. 27 della Legge n. 392/1978.

Tale durata è di sei anni per gli immobili adibiti ad attività industriali, commerciali, artigianali, di interesse turistico e di lavoro autonomo, mentre di nove anni per gli immobili adibiti ad attività alberghiere o teatrali.

Qualsiasi clausola che preveda una durata inferiore è da considerarsi nulla e viene automaticamente sostituita dalla durata legale prevista dalla legge. Questo meccanismo di eterointegrazione del contratto garantisce al conduttore una stabilità del rapporto ritenuta essenziale per l’esercizio dell’impresa.

La conseguenza più rilevante della riqualificazione è il sorgere del diritto del conduttore a percepire l’indennità per la perdita dell’avviamento commerciale, disciplinata dall’art. 34 della Legge n. 392/1978.

È fondamentale comprendere perché tale indennità non è dovuta in un contratto di affitto d’azienda genuino. Come chiarito dalla giurisprudenza, nell’affitto d’azienda l’avviamento è un elemento intrinseco del complesso aziendale già esistente e concesso in godimento. L’affittuario non crea l’avviamento ex novo, ma si limita a gestire (e, si spera, a incrementare) un valore che è già parte dell’oggetto del contratto [

Pertanto, alla cessazione del rapporto, non ha diritto a un indennizzo per la perdita di un bene che non ha originariamente creato.

Del resto, nella locazione di immobile l’avviamento è una qualità che viene creata ex novo dal conduttore, con la conseguenza che è corretto che questi ne sia indennizzato alla cessazione del contratto. Al contrario, nell’affitto d’azienda, l’avviamento inerisce già inscindibilmente al complesso aziendale affittato e perciò, nel caso di cessazione del contratto, nulla spetta all’affittuario [Tribunale Di Udine, Sentenza n.52 del 20 Gennaio 2025].

Inoltre, il diritto all’indennità di avviamento è inderogabile. La giurisprudenza ha costantemente affermato la nullità, ai sensi dell’art. 79 della L. 392/1978, di qualsiasi pattuizione preventiva che escluda o limiti tale diritto. 

Una rinuncia è considerata valida solo se interviene successivamente alla conclusione del contratto, quando il conduttore non si trova più in una posizione di debolezza contrattuale.

In sintesi, un contratto denominato “affitto d’azienda” viene ricondotto alla disciplina della locazione commerciale quando l’indagine del giudice rivela che l’oggetto effettivo del contratto non è un complesso di beni già organizzato per l’esercizio d’impresa, ma un semplice immobile, concesso in godimento affinché il conduttore vi impianti la propria attività.

La riqualificazione del contratto comporta l’applicazione delle tutele imperative previste dalla Legge n. 392/1978, tra cui:

*   L’applicazione della durata minima legale di sei o nove anni (art. 27).

*   Il riconoscimento del diritto del conduttore all’indennità per la perdita dell’avviamento commerciale (art. 34), a condizione che la cessazione non sia a lui imputabile e che l’attività svolta preveda contatti diretti con il pubblico.

La distinzione, pertanto, non è meramente formale ma sostanziale, e la sua corretta applicazione è essenziale per garantire l’equilibrio tra gli interessi delle parti e la tutela dell’attività d’impresa, secondo la ratio voluta dal legislatore.

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